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il bigolo ancestrale

Il bigolo ancestrale.
Le feste comandate nella mia famiglia venivano annunciate da un tipico piatto veneziano, i bigoli in salsa.
I bigoli sono una pasta lunga, simile ad un grosso spaghetto, preparati con grano tenero, acqua, uova e sale, conditi con una salsa alle acciughe.
Rispettando la prescrizione del “venerdì di magro”, mia nonna preparava il giorno prima di Pasqua e Natale questa pietanza povera e molto saporita.
Da allora io associo il suo profumo all’attesa della festa.
Penso si tratti di una ricetta ancestrale, proprio per quell’idea e quel gusto che si rifanno a sapori antichi, ad un gusto di mare e di terra che nelle acciughe salate e nel dolce delle cipolle ci ricordano di essere originati dalla terra di cui siamo impastati e dal mare, da cui è originata la vita.
L’organizzazione del piatto richiedeva tempo ed impegno di tutta la forza lavoro familiare, anche perché era nell’aspettativa del nonno che il piatto – che doveva sostentarlo per tutta la giornata di lavoro – dovesse essere perfetto.
La principale caratteristica di questa pasta è la sua ruvidità, che le consente di trattenere sughi e condimenti; questa peculiarità le viene donata dal tipo di preparazione a trafila che impiega nell’antica tradizione torchi azionati a mano.
Non avendo a disposizione strumenti particolari, la nonna usava uno strumento “ad alta tecnologia” recuperato chissà dove da un robivecchi , un tritacarne a buchi grossi sagomati in un cilindro di rame, da cui spingendo con un pestello, faceva uscire la pasta a forma di lunghi cordoni, i bigoli appunto.
Appena fatti, i bigoli venivano messi ad essiccare a cavallo di un bastone (un manico di scopa) sospeso fra due sedie, la “pertega”.
La preparazione iniziava rigorosamente alle 8 di mattina, occorrendo almeno 4 ore per l’essiccatura.
Si tirava fuori dalla credenza un canovaccio pulito, si adagiava tra le due sedie sul bastone e si facevano seccare gli spaghetti, per il pranzo delle 12.
La nonna mi metteva a impastare a mano le uova con la farina. Dopo poco, le mani erano incrostate e facevo fatica a muoverle.

Le uova provenivano dal pollaio di casa. Un tempo, mi raccontava nonna mentre impastavo, le uova erano moneta per il libero scambio: con 1 uovo si poteva acquistare in misura di farina, 1 uovo di zucchero o di sale; con mezzo uovo del concentrato di pomodoro o di carne.
A parte, si procedeva con la preparazione del sugo , in una vecchia pentola nera ed incrostata. L’odore era penetrante .
Io ero addetto a triturare le cipolle con la mezzaluna. Le lacrime mi scendevano così copiose che quasi non ci vedevo.
La ricetta, fedelmente trascritta a mano in un quaderno di cucina era pressappoco così:
“Affettare due grosse cipolle e mondare 70 g. di acciughe sotto sale, lavandole accuratamente e lasciandole a bagno per un po’. Soffriggere insieme le cipolle e le acciughe liberate dalla lisca e fatte a pezzettini in un decilitro di olio d’oliva, prima a fuoco vivo, senza coperchio, poi, quando la cipolla imbiondisce, frenare la cottura con due cucchiai d’acqua. Mettere il coperchio e lasciarvelo sino a quando le cipolle saranno completamente appassite, tenendo il fuoco al minimo, aggiungendo un pizzico di pepe appena macinato a fine cottura”.
Oggi , dopo oltre 30 anni, ai ricordi si assommano i miei mediocri studi autodidatti sulla cucina veneziana.
Nella tradizione, i “bigoli in salsa” sembra si colleghino alla tradizione ebraica.
Arrivati in laguna in buon numero dopo l’anno mille, gli ebrei si stabilirono dapprima alla Giudecca (nome che rimanda direttamente alla parola “giudeo”) dove, pur minacciati costantemente di espulsione, concentrarono le loro attività mercantili.
Nel 1516 le autorità della Serenissima crearono il Ghetto – parola che allude ad una vecchia fonderia che tutti chiamano gito (e che poi, appunto, diventerà ghetto) – quartiere della città dotato di porte che al tramonto vengono sprangate, così da trasformarsi in un domicilio coatto, inizio di una emarginazione latente, che culmina per buona parte del XVIII secolo, con il divieto di esercitare l’industria, di commerciare in granaglie e in altri generi alimentari, di impiegare personale subordinato cristiano.
Questo non impedisce di influenzare culturalmente e culinarmente la città, come conferma il testo “La cucina nella tradizione ebraica”, di Giuliana Ascoli Vitali.
L’autrice individua una serie di piatti ebraici di derivazione veneta o specificamente veneziana fra i quali spiccano i risi e bisi, il riso con le verze, i bigoli in salsa, la polenta pasticciata, le sarde in saor, le sogliole marinate.
Tutte pietanze rigorosamente kasher, cioè conformi alle prescrizioni del Pentateuco che disciplinano divieti, incroci e abbinamenti alimentari.
Il bigolo e la sua salsa, a prescindere dalla sua origine, resteranno sempre nella mia testa su quella sedia di legno, ad essere pettinati dalla mano ossuta di mia nonna.
E le mie orecchie udranno nel frattempo il soffriggere della cipolla e del pesce, mentre il naso si riempirà di un profumo grasso e dolciastro.
Così è per i piatti dell’anima.